Immaginate di trovarvi sul tetto del mondo, il maestoso Monte Everest, dove i sogni di conquista si scontrano con la dura realtà. Ma cosa succederebbe se quel sogno si trasformasse in un incubo di scalatori bloccati, privazione di ossigeno e corpi congelati che si trascinano lungo i pendii ghiacciati? Le recenti immagini dalla vetta più alta del mondo hanno scioccato la comunità globale, rivelando una scena agghiacciante: guide sherpa locali che trasportano un cadavere non identificato su per la montagna, il cui corpo è già indurito dalle temperature sotto lo zero. Questa non è solo una tragica anomalia; è un sintomo dei mortali “ingorghi” che affliggono l’Everest, dove l’ambizione incontra la mortalità nel modo più implacabile. Con il decollo del turismo d’avventura, sempre più persone accorrono per raggiungere la vetta del gigante di 8.848 metri, ma a quale prezzo? Immergiamoci in questa straziante storia che sta scatenando un dibattito globale.

Il filmato, condiviso da Rohtash Khileri, mostra quattro portatori Sherpa inginocchiati e intenti a stringere il corpo di una vittima in una giacca, legandola saldamente prima che il freddo la renda inutilizzabile. Il destino dell’alpinista non identificato rimane sconosciuto, se tra i decessi recenti o tra i resti di spedizioni passate. Ciò che sappiamo è triste: in soli 13 giorni, l’Everest ha causato almeno 11 vittime, segnando la stagione più mortale dal catastrofico periodo 2014-2015, quando valanghe e terremoti devastarono la regione. Gli esperti attribuiscono molte di queste morti alla famigerata “zona della morte” sopra gli 8.000 metri, dove i livelli di ossigeno precipitano a un terzo del livello del mare. Qui, gli alpinisti fanno la coda per ore in punti critici, esposti a ipossia, congelamento e sfinimento. Almeno quattro persone sono morte direttamente a causa di questa congestione, i loro corpi soccombendo nell’attesa che si accumulasse l’opportunità.

Questo picco di morti non è isolato all’Everest. In tutta l’Himalaya, altri nove alpinisti sono morti su altre vette, e uno è ancora disperso, facendo salire ulteriormente il bilancio totale. Le immagini sono viscerali: una mostra gli sherpa che trascinano il corpo a valle, un duro promemoria dell’indifferenza della montagna. Un’altra foto inquietante, pubblicata in precedenza dal regista canadese Elia Saikaly, mostra una fila di alpinisti che passa accanto a un cadavere congelato, la cui forma è inquietantemente conservata nel ghiaccio. La toccante didascalia di Saikaly risuona profondamente: “Siamo qui a inseguire un sogno, ma sotto i nostri piedi giacciono i corpi senza vita di altri. È questo che è diventato l’Everest?”. Le sue parole ci costringono a confrontarci con la mercificazione della vetta, un tempo regno di esploratori d’élite, ora un obiettivo da raggiungere per ricchi amanti del brivido.

Storicamente, l’Everest è sempre stato pericoloso. Dall’inizio dei tentativi seri nel 1927, in media muoiono circa quattro scalatori all’anno, pari a circa il 6% dei tentativi di scalata. Ma gli ultimi anni mostrano un preoccupante aumento, trainato dall’impennata del numero di permessi. Il Nepal ha rilasciato un record di 381 permessi in questa stagione, ciascuno al costo di 11.000 dollari, alimentando un’industria che vale milioni. La folla aumenta durante la ristretta finestra di maggio, creando ingorghi di persone sulle corde fisse e sulle creste strette come l’Hillary Step. I critici sostengono che gli scalatori inesperti, attirati da tour guidati che promettono gloria, esacerbano i rischi. Molti non hanno il rigoroso addestramento necessario per tali estremi, trasformando la montagna in una “trappola mortale”, come l’ha descritta uno sherpa veterano.

L’indignazione pubblica sta crescendo, con richieste al governo nepalese di intervenire, magari limitando i permessi, imponendo test di idoneità più severi o distribuendo le ascensioni tra le diverse località. Eppure, i funzionari minimizzano la crisi, insistendo sul fatto che le vittime erano semplicemente impreparate e che non sono previste restrizioni immediate. Questa posizione suscita l’ira degli ambientalisti e dei puristi dell’alpinismo, che avvertono che l’Everest sta diventando un cimitero. Oltre 300 corpi sono già disseminati sui suoi pendii, conservati come macabri monumenti a causa dell’incubo logistico del recupero. Gli sherpa, spesso non riconosciuti, che sopportano il peso del pericolo a causa dei magri salari, rischiano la vita in questi recuperi, evidenziando il pantano etico dell’alpinismo commerciale.
Questi eventi sottolineano temi più ampi del turismo d’avventura: lo scontro tra l’ambizione umana e i limiti della natura. Mentre sempre più persone inseguono l’obiettivo supremo, simboleggiato dal fascino dell’Everest, anche l’ecosistema della montagna ne soffre, con cumuli di rifiuti e rifiuti umani che ne deturpano le vette incontaminate. L’immagine di Saikaly e il recente video non sono solo immagini scioccanti; sono un campanello d’allarme. Umanizzano le statistiche, che mostrano il lato crudo e poco glamour di un’attività resa glamour da film e social media. In un’epoca in cui le vette su Instagram diventano virali, dobbiamo chiederci: ne vale la pena?

Il cadavere congelato che striscia giù dall’Everest non è solo un’istantanea tragica; è uno specchio che riflette la nostra arroganza collettiva. Mentre ci meravigliamo della resilienza umana, dobbiamo anche piangere i sogni che periscono nel ghiaccio. Governi, scalatori e tour operator devono dare priorità alla sicurezza rispetto al profitto, magari attraverso normative sostenibili che onorino la sacralità della montagna. Per coloro che sono tentati dal richiamo dell’Everest, ricordate: la vera conquista non sta nel raggiungere la vetta, ma nel tornare vivi per apprezzare il viaggio. Speriamo che queste immagini inneschino un cambiamento prima che altre vite vadano perse sul tetto della morsa mortale del mondo.